Il ricordo va a una specie di momento di stupore che ebbi all’ascolto della Petite Messe Solennelle a cui assistetti nella mia non vicina gioventù: quando arrivò il Preludio religioso restai colpito dall’inusuale denso tessuto polifonico in mezzo ai canti spianati e agli accompagnamenti convenzionali della restante Messa; mi chiesi allora, senza sapermi dare una risposta, dove stava il vero Rossini.
Non posso che concordare con l’idea di un genio assoluto e assolutamente italico, capace di coniugare ispirazione e tecnica, immediatezza comunicativa e profondità costruttiva; egli ha raccolto la tradizione tutta italiana del belcanto e del contrappunto e lo ha mutato nel romanticismo acceso e grandioso dell’ottocento.
Ritengo che antico e moderno sono gli eterni punti di antagonismo per un compositore e che i termini del problema si pongono soprattutto se si ha riguardo al pubblico verso cui si indirizza la musica; quando il legame con il passato è troppo forte si rischia di rifare il passato, peggiorandolo ovviamente, quando si vuole abbracciare il moderno esasperato si rischia l’autoreferenzialità priva di comunicativa o l’effetto episodico. La mia soluzione è una via a metà fra inquadramento tonale, ricerca formale, discorsività tradizionale, retorica degli affetti e orecchio sulla musica più ascoltata di oggi.
Sono partito dall’idea che un omaggio a Rossini deve partire dal Rossini più presente nell’immaginario collettivo, e quindi ho raccolto alcuni suoi temi più famosi e ho disegnato un brano in cui questi temi compaiono come attori di volta in volta messi in contesti retoricamente stilizzati (Preludio, Adagio, Scherzo, Finale); naturalmente il pretesto è quello di far sentire i diversi registri dell’organo, di rivisitare stralci di tradizione e di fare una sorta di apoteosi finale sovrapponendo i temi fra di loro.
L’idea di fondo è quella della giocosità e del tratto leggero, derivato appunto dalla cifra linguistica rossiniana fatta di ariosità, velocità, sorpresa, gioco delle parti, discorsività spensierata ma mai lasciata al caso; naturalmente nei confronti della tradizione paludata dell’organo il citare temi celebri rossiniani diventa ironico gioco con la storia e con la severità a volte eccessiva dei nostri organisti puri. Nemmeno Bach era sempre serio all’organo se lo si rapporta ai suoi tempi.
Non darei mai consigli a chi ascolta perché ritengo che il solo spiegare quello che si fa è il fallimento della musica; confido che l’ascoltatore capisca da sé il gioco sotteso alla musica e spero per me di essere stato abbastanza limpido nel mio intento.
Non ne vedo in circolazione. Non saprei chi indicare. Effettivamente, non penso che l’organo, come l’orchestra o il pianoforte, ecc.., abbia qualche futuro: non solo perché la maggior parte degli organisti/musicisti classici si limita a “eseguire” musica del passato facendo di fatto il museo, ma perché i musicisti che stanno facendo la storia (mi riferisco all’enorme massa di musica di consumo che costituisce la grandissima parte del panorama musicale odierno), ignorano l’organo e non lo chiamano a veicolare sentimenti o emozioni di oggi; neppure la chiesa commissiona più opere per il suo strumento istituzionale e la collocazione liturgica è un impiego senza dubbio nobile, ma troppo spesso non richiesto di contenuti artistici; secondo me è solo il dialogo e l’unione con gli altri strumenti, anche modernissimi, che può togliere l’organo dal suo angolo dorato, ma certo se non vi è una funzionalità culturale, non vi è neppure la necessità di un “esserci”.
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