Più che altro sono le luci e le suggestioni di alcuni scorci naturali ad aver lasciato dentro di me un’impronta: un cespuglio su una strada sterrata, l’ombra di un noce, la fioriera densa di piccoli garofani sul ballatoio di una casa dell’infanzia; oppure il profilo di mia madre che si piega a innaffiare paziente un geranio. E le rose di Rosa, la madre di una mia piccola amica, sgargianti e profumate nel giardino che circondava la casa. E poi le bocche di leone di cui parlo in una mia poesia.
Del gioco con i fiori ricordo il cuore di un papavero che, premuto sulla fronte, lasciava l’impronta di una stella. Oppure le spighe impigliate sul tessuto di una maglietta a enumerare i possibili fidanzati nel mio futuro di ragazza. A parte questi ricordi, credo sia centrale il rispetto di un dialogo silenzioso.
Assolutamente. Per quanto, si richieda talvolta alla poesia di essere “capita”, esigenza che, confesso, mi disorienta, perché costringe a creare “ponti” di significato, là dove c’è forse una immagine, intorno alla quale si avviluppa e dispiega un percorso creativo; immagine che non può essere “spiegata”.
Il silenzio e il sacrificio dell’umiltà.
Forse per educazione e un po’ per carattere sono abbastanza schiva. Credo che il presupposto di una poesia “onesta”, come dice Umberto Saba, sia il “dimentica te stesso”. Credo che il parametro della gratitudine rappresenti una vera e propria categoria critica, tramite cui misurare la capacità di una poesia di “trattenere” il lettore, libero di cogliere in essa un elemento di universalità.
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