Parafrasando Charlie Parker, un completo controllo dello strumento e dell’ambito in cui si opera (armonico, melodico, ritmico) per poi poter suonare liberamente.
“Learn your instrument, practice, practice, practice ….. then forget it and just wail”.
Molti jazzisti sono stati maestri nell’uso delle pause, che servono a conferire ancor più significato a quello che si è appena suonato e a quello che si suonerà. Basti pensare a Miles Davis.
L’improvvisazione è come il discorso di un oratore. Se non conosce la materia e non la ama si incepperà in una serie di “cioè, comunque, hmmm, d’altro canto, insomma”.
Un oratore può leggere da un foglio e la sua mancanza di spontaneità non catturerà l’attenzione degli spettatori. Deve avere il pentagramma “in testa”. Qundi le improvvisazioni meglio riuscite della storia del jazz sono meno “improvvisate” di quanto si creda.
Dei tre Debussy è quello che ha più affinità con il jazz, infatti il suo linguaggio armonico ha influenzato molti jazzisti (basti pensare a Bill Evans).
Vi sono poi alcuni linguaggi del jazz (basti pensare al bebop) che condividono con la musica barocca un certo gusto per la fioritura melodica, le forme chiuse e le cadenze standard.
Con Gounod siamo in pieno ’800, per cui possiamo dire che la prolificità melodica dei compositori dell’epoca romantica è presente anche nei grandi songwriters che sono alla base del repertorio degli “standards” jazz.
Il saxofono è uno strumento agile tecnicamente, con un suono potente (più adatto quindi a competere in volume con batteria, trombe e tromboni rispetto a un flauto o a un clarinetto). Inoltre è molto facile “personalizzare” il timbro del suono. In pratica incarna l’ideale di strumento musicale come prolungamento della voce umana tanto caro al jazz.
Mi è capitato di improvvisare mentre un attore leggeva una poesia di Jack Kerouac. Possiamo dire che in particolare la beat generation e i suoi poeti abbiano preso spunto dal jazz, in particolare dal bebop (loro contemporaneo) con le sue melodie angolari ed irregolari molto adatte a creare pathos e drammaticità.
Ogni lavoro, anche il più commerciale, rappresenta una sfida con se stessi, nel senso che è certo più semplice suonare ciò che si vuole come si vuole che non “piegarsi” ad esigenze e necessità esterne. Per fare quello ci vuole mestiere, capacità professionali, conoscenza dei generi musicali e non sono tutte cose che si improvvisano in un attimo. Per cui arrivare a farlo “a regola d’arte” è sempre una grande soddisfazione.
In dettaglio devo dire di aver sempre lavorato con grande piacere per Mina perché ho potuto raggiungere un pubblico ampio e trasversale, lavorando senza alcuna costrizione.
Inoltre sono abbastanza fiero di avere, in tempi non sospetti (1986), iniziato a proporre grandi opere di jazz per big band (ad esempio la suite “Such sweet thunder” di Ellington, o anche i “Sacred concerts” delle stesso Ellington). Insomma il “repertorio” per la grande orchestra jazz, sul modello di quanto viene fatto nelle stagioni sinfoniche, ben prima che ciò avvenisse anche in America.
Con grande interesse del pubblico e totale disinteresse della critica, già allora impegnata a “correre in soccorso dei vincitori”.
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